
SCULTURA DE(L)-REALE
Ernesto L. Francalanci
L’insieme delle opere di questa esposizione si presenta, a giudicare solo dal nome degli oggetti realizzati, come una rassegna di strumenti e di utensili quotidiani: una forchetta, una bilancia, una forbice, una vite, una chiave, una pompa, una molletta.
Gli oggetti a cui i nomi fanno riferimento sono tuttavia ingigantiti a tal punto da non poter più essere utilizzati per il fine per il quale sono stati originariamente concepiti, realizzati e “nominati”: la prima conseguenza di questo sovradimensionamento è infatti, con la perdita della loro funzione, la messa in questione del loro “nome”.
“Questa forchetta non è una forchetta”: il gioco epistemologico di Magritte, che inseriva una proposizione simile in un disegno raffigurante una pipa, viene qui confermato anche senza il ricorso problematizzante della sua rappresentazione; in questo caso la conseguenza del confronto tra realtà e opera d’arte è diretta, ponderale, quantitativa, non ‘formale: si può ancora chiamare forchetta questa “cosa” lunga un paio di metri e pesante più di un quintale?
Il problema della relazione concettuale tra la cosa e il nome è stato assunto come vera e propria tematica artistica da molte avanguardie; si tratta della questione complessa del titolo dell’opera, il quale, soprattutto da quando, agli inizi del secolo, l’arte ha smesso di possedere una funzione rappresentativa e narrativa del reale, ha assunto una sua precisa ragione filosofica con il compito di mettersi in una sorta di cortocircuito logico, di spiazzamento semantico, con l’interpretazione prima e più immediata dell’opera, provocando quel fenomeno, di cui furono maestri Man Ray e Duchamp, nella poetica dadaista, Magritte e Dalì in quella surrealista, che Freud aveva già definito come “motto di spirito”.
Nel caso delle opere di Vittorio Doralice i nomi originali degli oggetti sono sostituiti da titoli, che trasferiscono queste “cose” monumentali dentro il gioco sottile e raffinato delle allusioni e delle allegorie; nell’ordine questi titoli sono: La quantità, Pesare la realtà, Tagliare col passato, La torre di Babele, Ospitalità, L’aria è condizionata, Fermare la realtà?
È questa la prima sfera di senso dentro cui possiamo cominciare a comprendere il significato di queste “sculture”; il secondo corollario
logico-interpretativo è offerto dall’ambientazione, dalla loro installazione dentro o accanto strutture architettoniche che le contengono o che le sorreggono, esse stesse opere d’arte che posseggono una loro autonomia, data la ingegnosità e la invenzione del manufatto; il terzo elemento di cui è necessario tener conto è lo spostamento di questi congegni, contenitori e contenuti, supporti e opere, dall’interno “museale” dello spazio espositivo all’esterno pubblico della strada, della piazza, della città considerata essa stessa, dunque, come spazio museale, come luogo privilegiato per esporre, vedere, discutere l’opera d’arte, montagna che va a Maometto, che va a farsi conoscere e riconoscere, per poi rinchiudersi nella torre del silenzio e dell’enigma; tutte queste opere, sculture e architetture, vanno infine godute dentro gli straordinari taccuini di disegni dell’autore, nei quali si intercalano e si sovrappongono immagini di tipo progettuale con invenzioni fantastiche e immaginarie: la veloce, immediata grafia fragile e letteraria dei disegni va commi¬surata con la grandezza disumana delle sculture realizzate.
Tali sculture riproducono dunque oggetti reali, ma ingigantendone le proporzioni: esse quindi si differenziano dai lori modelli, vale a dire dal reale, per una metamorfosi della quantità e non della qualità; la loro immagine è mimetica, eppure questa loro macrorealtà non è iperrealistica: la loro distanza dal reale è enorme, ponderale.
Oggetti fatti a misura della mano umana, quotidianamente frequentati, diventano, nella loro metamorfosi quantitativa; enfatizzate allegorie delle loro funzioni seconde, del loro senso nascosto, del loro significato meta-fisico: al loro eccesso di volumi, di misure, di materia, corrisponde proporzionalmente un processo di de-costruzione e di de-realizzazione; il massimo di realismo, sembra ulteriormente confermato, coincide con il suo opposto, vale a dire con la massima astrazione.
Il senso dell’opera è dunque legato anche ad una componente “quantitativa”, ad una misura di materia e di spazio; il passaggio dal banale all’eroico, dal quotidiano alla storia è forse solo una questione di pesi più che di qualità: l’enfatizzazione della realtà produce mostri.


